Data di pubblicazione articolo: 10.10.2017


Tema | MAESTRI DELL’ARCHITETTURA | Cristina Fiordimela – 27 Febbraio 2017 | RdA2

Due libri per rivivere i progetti di Franco Albini.

La Fondazione Franco Albini festeggia i primi 10 anni di condivisione e conservazione degli insegnamenti del maestro. Due riedizioni Electa ne illustrano gli arredi, gli interni e gli allestimenti.

La seconda edizione dei “Documenti di architettura” di Electa dedicati a Franco Albini è l’occasione per rileggere i suoi progetti riuniti in museografia e allestimento, e in interni e design, seguendo l’itinerario critico e storiografico tracciato da Federico Bucci con Augusto Rossari e con Giampiero Bosoni nel 2005 e nel 2009: un approccio cognitivo del progetto volto a connettere l’archivio con la storia dell’architettura, la storia della critica, la didattica, la ricerca, la professione, attraverso il contributo di più autori e il corpus iconografico degli album che raccolgono in un unico piano-sequenza disegni e fotografie.

La struttura dei libri è articolata per temi architettonici in coincidenza con la ricerca di Albini che – scrive Antonio Monestiroli nelle prime pagine del volume su musei e allestimenti – assumeva «il tema in architettura come tramite fra architettura e realtà», come «legame di conoscenza […], da Verri a Banfi, che rende felice chi lo pratica». Monestiroli ne enuncia il filo conduttore che tiene in tensione architettura e design, interni residenziali e musei: «Ognuna di queste costruzioni era fatta in un certo modo per un certo motivo che apparteneva al tema del progetto, al modo in cui si voleva raccontare il significato di quel tema». Abitare/esporre come duplice liaison tra l’Albini “razionalista” e quello “novecentista”, tra precisione artigiana e distribuzione dello spazio che coltiva «il campo degli allestimenti e dell’architettura degli interni come terreno d’elezione a stretto contatto con l’industria, dove sperimentare i risultati più avanzati del suo lavoro di costruttore». E – sono le parole di Bucci – «come nell’arredamento della sua abitazione, negli allestimenti di Albini troviamo una serie di segni che definiscono le qualità spaziali e temporali dell’architettura mediante il riconoscimento di una tradizione intesa come moto continuo di vita».

Moto che trova sublimazione nella sospensione di «vettori, linee-forza, materializzati da aste o sottili strisce e lastre, orizzontali e verticali, che attraversano l’ambiente nelle tre direzioni cartesiane, stimolando il percorso e la visione» in «cornici di fermo immagine», scrive Gianni Ottolini, ponendo l’accento sulla temporalità come snodo oscillante tra il tema della casa e il tema dell’allestimento. Fermo immagine dell’architettura che in altri termini, a proposito di museografia, Marco Mulazzani declina come «intervallo», e Rossari come «percepibile aura sospesa, quasi metafisica». Il binomio vuoto/sospensione ricorre nelle pagine di questi due volumi, tanto da costituirne una sottotraccia, una sorta d’immanenza intrinseca all’architettura di Albini, come leggiamo anche in questo suo passaggio nella lezione per l’apertura dell’anno accademico 1954-55 allo IUAV, ripreso da Bucci per trattare l’invenzione espositiva: «Spazio architettonico legato in un’unità assoluta con le opere esposte […],  atmosfera vibrante da ricercare nelle composizioni di volumi atmosferici e di volumi solidi che si compenetrano e si compongono nello spazio. É mia opinione che sono proprio i vuoti da costruire essendo aria e luce i materiali da costruzione».

Le sospensioni di opere d’arte, di libri, di cristalli, di tessuti, di scie e terminali luminosi, di scale, orientano il movimento nello spazio ponendolo in relazione agli oggetti «magicamente spaesati all’interno di invasi effimeri» – è uno stralcio di Manfredo Tafuri – come in un «museum continuum», annota Bosoni, in «una visione dello spazio cavo e rarefatto» che nel disegno di arredo diventa tensione verso l’infinito, «forma della sostanza».

Espressione introdotta da un contributo di Paolo Fossati nelle ultime righe dei documenti di architettura su interni e design, che nell’argomentare l’analogia tra la poltroncina Luisa e il progetto per la metropolitana milanese, riprende l’esordio del primo volume, su musei e allestimenti, soffermandosi sul tema: «ciò che Albini lascia in evidenza, senza mai sfuggirvi, è il tema». Il tema è definito dal sistema di forme nello spazio: «Al tempo stesso corrimani e attrezzature funzionali sono sospese dal loro anonimato, trasformate in segnali e staccate con estrema nitidezza ed eleganza dal muro a fare da linee portanti di un disegno appena tracciato, eppure fermissimo, con una formazione e modulazione spaziale, che dal telaio delle esposizioni passa a essere qui una traccia, ma senza rinunciare a definire e moltiplicare gli spazi».

Architettura come sospensione dal giudizio. Che nel solco di Kant sarebbe: das ding an sich, la cosa in sè.






Tema | CITTÀ | Michele Roda – 7 Febbraio 2017 | RdA1

Cesare De Seta e Marco Romano in viaggio tra le città, contro l’omologazione.

Due autori, un unico tema e due letture (politica vs estetica) in 53+50 ritratti da New York a Sassello.

Viaggio e città. Due libri – analoghi per tema, complementari per prospettive – raccontano la parabola architettonica della città contemporanea attraverso il percorso, proposto come principale strumento di conoscenza. Focalizzandosi in particolare sulla dimensione politica (De Seta) e su quella estetica (Romano). Curiosa sovrapposizione di tempi per le due pubblicazioni, entrambe uscite nella seconda metà del 2016 ed entrambe su iniziativa di case editrici generaliste: Rizzoli e UTET. Ma le analogie riguardano per tanti aspetti anche gli autori: Cesare De Seta (classe 1941, napoletano, docente di storia dell’architettura) e Marco Romano (classe 1934, milanese, docente di estetica) racchiudono nelle loro esperienze di saggisti una buona parte della cultura urbana e urbanistica italiana degli ultimi cinquant’anni.

La scoperta della città attraverso il viaggio è il denominatore comune: i percorsi sono volutamente incoerenti, forse anche ambigui, ricercano senso e identità di un luogo raccogliendo indizi sparsi. Da una parte De Seta si definisce un “viaggiatore sedentario”, i suoi tragitti sono “in sezione”, ibridano la storia con l’attualità, gli elementi di qualità con le contraddizioni. Un percorso fortemente personale: “E non mi nascondo che questo libro è persino un’opera autobiografica: perché guardando una città si finisce per guardare in se stessi”, scrive nell’introduzione. Il viaggio di Romano ha invece anche una dimensione fisica, sul campo. Nella sua introduzione, intitolata L’arte di vedere le città, scrive che “la cognizione dello stile di una città avviene rigorosamente a piedi, prolungandosi spesso per qualche giorno, con la più clamorosa rottura delle convenzioni del visitatore consueto: benché abbia portato diligentemente con me una guida turistica neppure la aprirò e incomincerò la mia visita senza consultare nessuna mappa: cammino con la testa per aria invece che china sulle sue pagine”.

L’impostazione dei libri è per molti aspetti simile: dopo la breve introduzione metodologica e programmatica, De Seta racconta 53 città, di cui 41 straniereRomano ha invece un taglio più nazionale: dei suoi 50 ritratti, 35 sono dedicati all’Italia. Se il primo predilige grandi città e metropoli (raggruppandole in 10 capitoli, di cui quello dedicato alle città italiane s’intitola Un trascorso paradiso), il secondo usa un metodo democraticamente e didascalicamente alfabetico, da Abbiategrasso a Voghera, soffermandosi anche su realtà piccole e piccolissime.

L’altra significativa differenza riguarda l’apparato iconografico: il testo di De Seta è privo d’immagini e lascia alla parola ogni potere descrittivo ed evocativo; quello di Romano invece racconta i luoghi anche attraverso un ricco repertorio di fotografie e disegni. Scelta coerente con le rispettive ambizioni. De Seta esprime una dimensione politica e una forte vis polemica che si sofferma spesso su progetti e trasformazioni, anche recenti. Ne escono dipinti in chiaroscuro che si propongono d’illuminare la tendenza dell’urbanità: “Questo viaggio, volto a capire quale sia stato il passato e quale futuro attende le nostre città, non induce all’ottimismo, ma neppure vicina mi pare la minacciata e irreversibile catastrofe urbana. Di città continueremo a vivere e a morire ancora a lungo e questo, per quello che esse rappresentano nella mia vita, non è solo un auspicio ma una consolazione”.

Dove De Seta cerca i germi della città di oggi per immaginarsi quella di domani, l’attenzione di Romano è invece orientata a individuare l’essenza di opera d’arte della città stessa, di scovare la sua bellezza estetica, spesso nascosta “nella costanza dei temi collettivi, nel ricorrere delle medesime sequenze di strade e di piazze tematizzate”. Sono questi i luoghi “battuti” e raccontati nelle sue forme e nei suoi significati.

Le tante contraddizioni trovano una sintesi possibile nell’identità delle singole città, nelle loro eccezionalità individuali. Quell’identità che permette di riconoscere le differenze nonostante – scrive De Seta – “un forsennato rinnovo urbano tende ad appiattire le singole identità, sicché passando per la periferia di Madrid può capitare di pensare alle borgate che assediano Roma, o attraversando talune aree di Londra si fatica a distinguerle da quelle di Francoforte o di Singapore”. E forse sta proprio qua – nel ritrovare le identità che superano l’omologazione – l’aspetto più interessante della lettura dei due libri, dai quali emerge una tale “passione” per la città che permette a Romano di raccontare, a poche pagine di distanza e con la stessa metodologia, New York e Sassello (meno di duemila abitanti in provincia di Savona).