Tema | DESIGN | Cristina Fiordimela – 25 Settembre 2017 | RdA11
Libri, atlanti e miti per Sambonet, Sottsass e Binet.
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Pensare per immagini. O, citando Georges Didi-Huberman, L’image survivante. Roberto Sambonet, Ettore Sottsass, Hélène Binet.
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Testi di Filippo Del Corno, Maria Fratelli, Guia Sambonet, Elisa Camesasca, Matteo Iannello, Roberto Sambonet
«La mia è una cultura d’immagine. Ho in testa una specie di archivio incredibile di immagini, che poi amo sovrapporre, raffrontare: fare un parallelo, non so, fra l’Amazonas e il delta del Danubio, uno tutto giungla, caimani, pappagalli, l’altro voli di pellicani nei canneti e nei salici piangenti che vanno a finire nell’acqua». Il mondo di Roberto Sambonet è un atlante. Viaggio intorno al mondo, per comporre «oggetti di immagine lontani dalle mode ma attenti ai nuovi modi», come egli stesso scrive in forma di autoritratto per Grafica, nel 1989, tratteggiando il progetto come un’avventura compiuta dall’artista-esploratore che si lascia sospingere sulle vele di un design quasi pittorico e simultaneamente osserva, agisce, attiva sistemi interconnessi di paesaggi (video-intervista alla RAI del 1993). Atlante è la chiave di accesso all’archivio-mente, all’archivio-stanza, all’archivio-forme, all’archivio-oggetti, all’archivio-libro che Matteo Iannello interpreta, per il secondo quaderno del CASVA (gli archivi del progetto a Milano), ricollocandosi nell’archivio-progetto di Sambonet viaggiatore-designer.
RSt-atlante con cui Iannello titola nel libro il passaggio dalla raccolta dei testi critici alla rassegna delle immagini, è la metafora di un «cervello libero fra cielo e mare nell’azzurro più totale… nell’immediatezza dell’intuito», che miscela frammenti di micro e macro paesaggi catturati dallo sguardo vorace del viaggiatore, e impressi nel segno grafico dal designer che connette natura-artigianato-industriaattraverso la costruzione dell’immagine come meta-scrittura immanente. Il riferimento all’atlante assume nella lettura del “quaderno” la funzione di membrana architettonica del libro che sorregge e organizza la moltitudine di manifesti, fotografie, pagine stampate estratte da libri e riviste, studi a mano libera, marchi, logotipi, reportage dal mondo, disegni esecutivi, campagne pubblicitarie, tavole sull’invenzione dell’allestimento dove il design agisce come display di comunicazione e di sintesi interculturale tra antropologia-moda-economia. Atlante-mappa d’archivio per orientarsi nelle corrispondenze tra materia e forma, tra natura e tecnica come unità resa inscindibile dall’immagine. Come salire a bordo di RSt-atlante? Con tutto il corpo, come faceva Sambonet nelle sue traversate sul Daphne, come fanno il surfista e il camminatore delle cartoline postali che egli compone per comunicare a distanza, riportate nelle prime pagine del libro con un ricordo di sua figlia Guia. L’Atlante trasfigura nel mito moderno del corpo-secolarizzato in una ricerca costante di nuovi assetti dentro alla cresta dell’onda preistorica delle cose, per essere parte integrante dell’accadere cosmico. Corpo creativo in moto continuo del design-oggetto d’arte che «potrà così riempirsi nuovamente di infinito». Ne è l’emblema la Pesciera a cui Roberto Guiducci dedica queste parole. Pesciera fotografata in sezione nel movimento di aperto/semichiuso/chiuso, come le pagine di un libro. «Pesciera-ritratto brancusiano di un pesce, disegnarla è stato per me come farle un ritratto. L’avevo in testa, la conoscevo… e le ho fatto un ritratto». E come tante Pesciera aperte, i ritratti eseguiti da Sambonet appaiono più avanti disposti a pavimento, disegnando un mare increspato di moduli narrativi in forma di immagine. RSt, era anche il titolo della mostra dei ritratti milanesi, alla Galleria Profili, nel ’63. Si scorgono i volti noti, ‘campanili’ della ‘scuola di Milano’, Ernesto N. Rogers, Marco Zanuso, Lica Steiner, Gae Aulenti, Carlo De Carli, Adriana Botti, Gio Ponti, Franco Albini, Gabriella Colombo, Alberto Rosselli… Ritratto tassello-cerniera-contenitore che dischiude altre storie. Oltre Sambonet, il ri-tratto-libro è anch’esso organizzato come un set impilabile e scomponibile in sistemi di micro-organismi spaziali di cui la composizione dell’immagine è una sorta di pattern che costella, comprende e trasporta altri campi cognitivi, alla maniera di TIR, serie di bicchieri per Baccarat. Assumendo il ritratto come metafora della personificazione dell’esperienza esistenziale, la lettura del quaderno scopre una diversa cartografia del progetto. Così l’esordio nel primo capitolo della post-card di Martin Luther King nel giorno del suo assassinio, annuncia il cambiamento politico verso il mondo e, prima di chiudere la quarta di copertina, si immette nel ritratto di Ettore Sottsass, a matita e china su carta, con un doppio incastro, come in Toi et moi-bracciale, legame inizio-fine del racconto figurato: da Memphis a Memphis.
Testi di Francesca Picchi, Deyan Sudjic, Emily King, Francesco Zanot, Aldo Rossi, Andrea Branzi
Dal tableau alla table, dal ritratto al tavolo di lavoro, dall’archivio all’atlante, seguendo l’Atlas di Didi-Huberman, l’atto del guardare è una questione di distanza critica nell’elaborazione dell’immagine-dialettica. Il mio “sguardo” si sposta dal ritratto-atlantico al ritratto-dialettico, posandosi sullo sfondo arancio-attrattore da cui spicca l’effige composita di SOTTSASS trasfigurata nella simulazione grafica di un’humanized-Valentine rossa. Immagine-dialettica che in questa nuova edizione inglese della monumentale monografia di Phaidon, per il centenario della nascita di Sottsass, è il tool mediatico, di cui il libro è diventato il mito. Nella coincidenza autore-prodotto-media, il mito di Sottsass passa attraverso l’industria, dal design all’editoria. E nel libro dall’immagine dialettica mito-mythos – la prima dal greco ‘filo’ l’altra da ‘discorso racconto’ – riaffiora l’origine del binomio come nesso ordinatore della realtà: l’atlante-labirinto rappresenta il mondo di Ettore Sottsass. Come tante stelle filanti uscite dalla macchina da scrivere di Joan Brossa, le bande orizzontali multicolore dell’indice danno il tempo periodico alle macro aree del libro: biografia-produzione: fotografie, interni, architetture, pittura-scultura, ceramica-vetri, gioielli. Le strisce colorate agiscono come frange-unghiate, che collegano e discernono i campi di azione di Sottsass. Non c’è un unico filo rosso, ci sono tanti fili che ordiscono in più direzioni il ritratto: sottolineature che dalla punta larga di un pennarello si espandono coprendo per intero la pagina scritta. L’insieme delle campiture dirama i contenuti: con andamento trasversale all’arco di vita percorrendo una tonalità alla volta, piuttosto che per accorpamenti periodici, o ancora intrecciando le diverse filiere creative. Mentre il fondo bianco su cui galleggiano le immagini, e nelle prime pagine i saggi critici, allarga lo sguardo oltre il formato del libro, verso un atlas warburghiano. Che tuttavia resta concluso nel labirinto come un’immagine complessiva sempre consapevolmente costruita secondo uno spazio epistemologico, anche sistemico, da cui l’artefice difficilmente può sottrarsi, proprio come lo stesso Sottsass segnala in to the open-plan office. La presa di distanza nel processo di osservazione-rappresentazione è un tema che Sottsass elabora nel corso del tempo, e che Emily King traccia a proposito della sua invenzione grafica, in queste righe: «Sottsass learned that the “beauty”, “formal correctness”, “coherence”, “function”, even the “utility” of an object were not absolute, metaphysical values, but that they responded to a culture or a system, and varied in accordance with historical and cultural conditions». Il filo rosso libro-atlante-mito impostato per questo articolo, nel tentativo di tenere insieme Sambonet-Sottsass, si annoda al saggio della King, dove si ritrova anche in Sottsass il trait d’union del ritratto come immagine-dialettica e innesto tra testo-grafica-fotografia, partendo dal dopoguerra di Cocktails Portfolio fino agli anni di Memphis. E, in altro modo, da Magia Verde di Sambonet ai Mariachi messicani visti da Sottsass.
«Among the earliest surviving examples of Sottsass’s work as a graphic designer is the 1947 publication Cocktails Portfolio. A 35-page booklet, the bulk of which is an extensive list of mixed-drink recipes provided by the Milanese barman Amedeo Gandiglio, it also contains a series of collaged illustrations printed in three colours on foldout sheets. Suggestive of the role of cocktails in late nineteenth- and early twentieth-century society, these tableaux are dynamic and playful, yet they also include the odd touch of brutality: a cartoon of a fight shows a face in real pain, or the image of a fresh-skinned young woman is framed by a weathered female face fifty or so years older. Sottsass used pre-existing imagery by necessity in the 1940s, but his interest in this strategy lasted much longer. The invitations for the Memphis exhibitions in the early 1980s that were designed by Christoph Radl under Sottsass’s direction are a case in point. Showing a group of indigenous people on a beach, a lavish bunch of flowers, a diver and a Mexican mariachi singer, these cards appear to be created from stock images, photographs taken on spec and available for use on payment of a fee. They function in the provocative gap between what they show and the information they deliver».
Testi di Terence Conran, Deyan Sudjic, Tom Wilson, John Pawson. Foto di Hèlène Binet
Il mito apparente si sfila nella produzione-marchio e nel personaggio, definito dal set dell’intorno, di cui l’architettura è parola che ordina e delimita la realtà. Il mythos reale è il pensiero per immagini, oggi deep-net. Allora per uscire dal labirinto forse occorre cercare Arianna. E ripartire da un luogo che celebra il mito: il museo, anch’esso labirinto-atlante di itinerari cognitivi. Attenzione! Arianna viene abbandonata, anche se poi con Dyonisos entra nel culto. Ritrovo il personaggio-mito, Sir Terence Conran, e il mito-industria del dopoguerra, il suo Boilerhouse projet. Sono al Design Museum di Londra, dopo l’intervento museografico di John Pawson, nella nuova sede dell’Istituto del Commonwealth a South Kensington, all’interno del libro The story of the design museum, di Tom Wilson per Phaidon. Ritrovo il format grafico dei colori, come guida alla lettura. Ma questa volta comincio dalla fine, dall’ultimo comparto. Dal rosa a doppia pagina: in alto a destra “Hélène Binet photografs the museum”. La composizione grafica e il testo sono assenti. Il soggetto del ritratto è lo spazio nella luce. Le fotografie di Binet escono dai tableaux, lo spazio si prolunga oltre la cornice bianca della pagina, oltre il dispositivo normante della table. Non c’è traccia di mhytos, non c’è l’orlo dei linguaggi. Non si avverte la cercata contrapposizione dei punti di vista. La presa diretta della fotografia comprende lo spazio del corpo sottraendolo all’unicità autoriale, e incorporandolo in una co-presenza simultanea. Le foto di Binet mi liberano dal labirinto-atlante-mito con un muto-eloquente porsi del corpo-spazio nella luce, comprendendo il vuoto: the real of reality.